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Gli anarchici non votano e non vanno a messa!

Gli anarchici non votano e non vanno a messa!

Questo è il titolo di un volantino astensionista che fu distribuito alla fine degli anni ’70, durante l’ennesima campagna elettorale, davanti alle principali fabbriche metalmeccaniche di Reggio Emilia. Inutile sottolineare che il ciclostilato fu contestato duramente dall’allora Partito Comunista Italiano, presente in massa dentro gli stabilimenti, dagli avanzi della sinistra extraparlamentare e soprattutto dai delegati della CGIL-FIOM i quali, in più di un’occasione, avevano avuto a che fare nelle assemblee, nei picchetti e nelle manifestazioni operaie con la “FAI dei metalmeccanici”. Questa presa di posizione così naturale per gli anarchici rappresentava per i partiti riformisti con le loro appendici sindacali una vera e propria provocazione, in quanto inserita nel “modello emiliano”, un modello fatto di cogestione socialdemocratica a base di sacrifici operai per il bene dell’economia tricolore.

fai reggiana, Eppure quella dichiarazione politica fatta agli operai reggiani aprì una discussione, che durò parecchie settimane, sullo sfruttamento capitalista sostenuto dal sistema dei partiti. Questo proprio perché la nostra posizione radicale, oltre all’astensionismo storico e ideologico, richiamava i lavoratori a una risoluta scelta di classe che rifiutasse una politica interclassista e votaiola funzionale soltanto al comando statale e capitalistico. Inoltre cercavamo di smascherare le messe istituzionali, oltre a quelle religiose, officiate dai partiti, dai sindacati e dai gruppi extraparlamentari, basate su di una narrazione fasulla che raccontava di riforme parlamentari, referendum sindacali e richiami costituzionali che, anche allora, servivano, come servono oggi, a bollire il cervello dei lavoratori.

Era necessario, in quella fase dove il “non voto” aveva ancora percentuali contenute, costruire percorsi di autogestione popolare associate a pratiche sindacali indipendenti dove il protagonismo operaio, senza votanti e mestieranti, potesse affrontare a testa alta il programma del capitale. Si trattava di affermare una cultura libertaria nelle fabbriche come nella società, fondata sulla partecipazione e sull’assemblearismo diffuso, dove i lavoratori iniziavano a chiamarsi fuori dalle illusioni elettoraliste per mettersi sulla strada maestra della lotta di classe.

A distanza di quarant’anni possiamo affermare pacificamente che avevamo ragione. Quel partito e quel sindacato che promettevano di migliorare costantemente le condizioni di vita dei lavoratori, che promettevano momentanei sacrifici per il “bene superiore” in cambio di migliori condizioni di lavoro dopo, hanno gettato definitivamente la maschera. Prima hanno indebolito ed eliminato quegli strumenti di tutela del salario come la scala mobile, poi hanno imposto per via legale il monopolio sulle trattative sindacali con la concertazione per poi approvare tutte le riforme del mercato del lavoro, dal pacchetto Treu fino al Jobs Act. Quando queste riforme non sono state fatte direttamente dagli eredi del Partito, questi e i sindacati di stato le hanno accettate facendo al più qualche protesta simbolica. Intanto anche i settori economici di riferimento delle cordate di potere interne al PD, composte da ex-PCI ed ex-DC, si sono grandemente avvantaggiate di queste riforme. Le condizioni di lavoro nel settore cooperativo sono infatti grandemente peggiorate e proprio in quell’ambito possiamo assistere a forme di sfruttamento del lavoro inimmaginabili fino a pochi anni fa.

Per fortuna che costoro in cambio della delega, della rinuncia all’azione diretta, avrebbero dovuto traghettarci verso un’era più felice! “Il nemico marcia sempre alla tua testa / la socialdemocrazia è quel nano che ti arresta” cantava uno dei più lucidi cantautori di quel periodo – e così è stato.

Ora l’astensionismo in questi luoghi dove il PCI prendeva anche più dell’80% ed il tasso di astensione raggiungeva o superava di poco il 10% ha abbondantemente superato il 40%. Se in molti sono oramai disillusi rispetto alle possibilità offerte dal riformismo, i cicli di lotta in grado di invertire i rapporti di forza sociali sono purtroppo ancora oltre l’orizzonte.

Solo in certi settori industriali, pensiamo alla logistica, abbiamo potuto assistere alla ripresa vigorosa del conflitto sindacale, spesso attuate da settori di proletariato immigrato che non hanno mai conosciuto l’illusione riformista.

La stessa illusione riformista, laddove si ripropone e riesce a vincere alle urne, è destinata al fallimento: è fallita nelle sue riproposizioni contemporanee in Grecia, con Syriza rientrata nei ranghi e che non gioca nemmeno più all’opposizione delle politiche di austerity. È fallita nella crisi del “Nuovo Bolivarismo”, esperimento socialisteggiante condito con giacobinismo e teologia della liberazione salito al governo in Venezuela, stritolato dalle fluttuazioni del prezzo del greggio – determinate altrove – su cui basava la propria economia, un’economia per altro costruita a prezzo di grandi devastazioni ambientali fatte subire alle comunità indigene. È fallita in Turchia dove l’HDP è stato estromesso da un golpe bianco dal governo dalle municipalità che aveva democraticamente conquistato. Il “municipalismo” di Barcellona, preso a modello da certe componenti italiane che si presentano alle urne, non è in grado di dare una chiara risposta di classe al conflitto tra lo stato centrale spagnolo e il nazionalismo catalano.

L’espulsione dal mercato del lavoro – o la condanna a lavori saltuari informali o istituzionalizzati che siano – ora investe anche quella che un tempo sarebbe stata classe media: impiegati, tecnici, liberi professionisti, creativi. Il mondo si polarizza sempre più tra chi possiede i mezzi di produzione e chi non li possiede. È ovvio che il gioco non potrà durare in eterno: quando una popolazione di disoccupati o sottoccupati cronici non può assorbire la quantità di merci prodotta a ritmi sempre maggiori, la crisi sistemica diventa possibilità immediata.

Il riformismo, la cogestione, la socialdemocrazia hanno fallito. Le loro riproposizione contemporanee sono destinate a fallire ancora più velocemente.

Le ragioni del nostro astensionismo consistevano, e consistono tuttora, in una proposta militante che vuole costruire, attraverso cicli di lotte sociali, un altro modello fondato sui valori di uguaglianza e solidarietà. Un modello che non si può mettere in pratica se non si escludono fin da subito percorsi di delega e di voto in qualsiasi circostanza.

Fin dalla sua nascita l’anarchismo non contempla possibili ambiguità su questo terreno fondamentale, che investe sia il portato teorico che il programma pratico, con la sua relazione di coerenza tra mezzi e fini per realizzare una diversa organizzazione sociale basata sull’autogoverno e l’autogestione in una dimensione internazionalista.

FAI Reggiana


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